SCRITTI DI ESTETICA
A cura di: Antonio Zimarino
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Lezione 8

Specificità dell’uso del “simbolo”

Linguaggio dei simboli

Non si può realizzare una critica d’arte “iconologica” se l’immagine non trova correlazione esplicita con un testo letterario o comunque in una “biblioteca” immaginale diffusa e culturalmente condivisa. Infatti, di per sé l’immagine è polisemica, quindi senza ancoraggio, senza rimando, rimane senza definizione, ma solo con possibilità soggettive di comprenderla.

Il testo che sia in grado di “ancorarla” deve essere inoltre cercato nell’”enciclopedia” di riferimento dell’autore e del suo contesto e non in quella del critico. Questa notazione è importante, perché tutte le conclusioni possibili su di una immagine, hanno senso solo se lette alla luce della cultura formale e generale del suo autore. Fuori da questa condizione, qualsiasi indagine iconologica è arbitraria.

La ricerca formale in pittura invece, non è arbitraria, perché i confronti che il critico istituisce, non servono a definire il significato in se dell’opera in analisi, ma le sue relazioni all’interno della storia delle “forme” che è storia delle arti, all’interno del contesto artistico a cui l’opera appartiene.

L’analisi delle forme definisce inoltre, le concezioni che appartengono ad una cultura figurativa o ad un'altra, e il ruolo che quell’opera ha all’interno di essa. Dunque lo specifico delle arti figurative è quanto meno quello di essere “altro” dalla cultura letteraria.

Per un efficace lavoro critico si dovranno quindi valutare le forme dell’arte e le sue relazioni con la storia: in seconda battuta sarà anche necessario confrontare i significati attribuiti o attribuibili alla rappresentazione, con l’immaginario letterario a cui riferiscono.

Sull’autonomia dell’arte figurativa dalla elaborazione letteraria dei suoi contenuti.

L’Iconologismo” [1] ha verso l’arte una pretesa deterministica positivista, ovvero l’idea di delimitazione a comunicazione dei contenuti identificati unicamente nell’ambito di ciò che letterariamente è stato definito.

Se una simile prospettiva di analisi delle immagini ha una sua efficacia in determinati e splendidi periodi della storia dell’arte, (dove la traduzione sincretistica delle mitologie e dei sensi letterari sembra comunque più una comune caratteristica di alto artigianato figurativo), diventa un approccio limitativo per altri periodi storici o altri ambiti culturali.

Una riflessione va fatta innanzitutto per l’arte rinascimentale, quella che meglio è stata indagata dalle ricerche iconologiche: le opere  degli artisti maggiori di questa età, si distinguono (ma non sempre) dalla vastissima produzione di dipinti contemporanei, per la loro autonoma ed originale capacità di organizzare formalmente i contenuti letterari che la loro professionalità imponeva di conoscere. In sostanza la loro vera qualità, ciò che le distingue da una necessità tipica imposta dalla committenza e dalla cultura del tempo, è l’autonomia che l’artista ha nell’elaborare una simbologia codificata, raffinata e gnostica, tale da aprire nuove soluzioni, tale da sottolineare nuovi significati, tale da diventare perfetta e compiuta elaborazione del tema proposto dal committente, oppure di aggiungere sfumature concettuali complesse dettate da una propria autonomia intellettuale.

I grandi artisti del Cinquecento e di altre epoche che hanno praticato il linguaggio dei simboli [2] erano capaci di riorganizzarli in modo totalmente originale, sia al fine di visualizzare la totale complessità dei temi di riflessione (e persino dei “processi” mentali della meditazione) posti dal committente, sia al fine di esprimere la propria elaborazione personale del tema proposto.

L’originalità stava quindi non nel linguaggio dei simboli o nella maggiore o minore conoscenza delle sue sfumature, quanto nella capacità di organizzare la rappresentazione e il contenuto; ma organizzare il contenuto significa renderlo o criptico (accessibile ad una ristretta cerchia di persone in grado di decodificare) oppure leggibile (allargare il numero di fruitori che possono godere dei contenuti e dei processi di quella rappresentazione).

“Organizzare il contenuto” è in pratica, l’originalità, lo specifico dell’artista delle epoche passate come di quelle presenti. Ma come si può organizzare un contenuto se non scegliendo modi differenti di mettere in relazione i significati e le immagini simboliche basilari ? E’ il processo dell’organizzare che in conseguenza, rende possibile diverse interpretazioni o approfondimenti dei temi da comunicare. Dunque l’originalità dell’artista era nella sua capacità di diversificare, ampliare, precisare, esporre, commentare, restringere, allagare ecc. i significati attraverso la loro organizzazione.

Detta in altro modo, è la capacità di lavorare sui modi e sulle forme della rappresentazione che costituisce la cifra specifica dell’artista, pur nell’ambito di una comune concezione “iconografica” e iconologica delle immagini.

La facoltà di creare nuove associazioni, nuove relazioni, nuove riflessioni intorno ai temi voluti dal committente, distingue il Maestro dall’intelligente illustratore. Il Maestro discuteva spesso alla pari con il committente o era capace di inserire nella rappresentazione una sua riflessione particolare, oltre ciò che il committente imponeva. L’Illustratore, spesso personaggio di maggior successo era un esecutore più o meno approfondito, espertissimo della grammatica delle immagini, ma non in grado di lavorare con sufficiente autonomia e originalità sulle loro relazioni.

Lavorare sull’organizzazione dei materiali significa però, sempre, lavorare sulle “forme” della rappresentazione: l’originalità sta dunque sempre nella capacità di scegliere la “forma” che meglio sappia portare a compimento tanto l’intenzione del committente, quanto la personale riflessione dell’artista. La “forma” che meglio sappia, a partire dalla tradizione, rinnovarla e porsi così come nuovo referente per altre invenzioni.

Il “processo formale” attraverso cui si organizzano, si esprimono e si variano i “significati fondamentali” è un modo di indagare, conoscere e commentare, che ha una sua autonomia speculativa ed espressiva rispetto alla stessa filosofia e alla letteratura, e che è distinta dall’”illustrazione” che è semplice traduzione in immagine di concetti letterariamente già elaborati e definiti.

Anche gli stessi “maestri” si sono, in molti casi, comportati come banali illustratori (non mancano casi clamorosi in Tiziano, Lotto o Raffaello, ma anche precedenti), vuoi perché avevano un campo di intervento molto ristretto, vuoi perché il tema da illustrare non stimolava una adesione partecipata all’ideazione, vuoi perché il mestiere può facilmente prevaricare la riflessione personale. Credo che allora sia legittimo distinguere tra “attività artistica” e “attività di alto artigianato” anche nel caso di opere di maestri determinanti, in altre situazioni, allo sviluppo della storia dell’arte.

Si può allora distinguere in tanti casi, anche di Maestri assoluti il “mestiere” dall’attività autenticamente artistica e creativa; tuttavia lo studio della Storia dell’arte, non si avventura che raramente in distinzioni di questo tipo; Il ricorso continuo all’iconologismo contribuisce ulteriormente a confondere riguardo la qualità effettiva di opere di grandi maestri accomunando praticamente tutte le produzioni, nel relativo problema della spiegazione del contenuto letterario, dimenticando spesso di contestualizzarli all’interno degli interessi delle committenze.

Per capire dunque che lo studio dei contenuti altro non è che uno degli elementi per la comprensione delle arti, inutile senza lo specifico dello studio su come i contenuti vengono organizzati, è necessario porsi una domanda chiave, che vale tanto per la conoscenza del passato, quanto per la comprensione del presente.

"L’arte è acquisizione di conoscenze nuove ?” “ L’arte è elaborazione di materiale storico – culturale al fine di portare una riflessione e una acquisizione ulteriore e inedita ? O solamente rielaborazione di schemi e processi significativi e intellettuali elaborati altrove ? A questo proposito il problema filosofico è apertissimo come mostra un recentissimo saggio di E. Franzini. [3]

I limiti di un simbolismo individualizzato.

Il “simbolismo” è un “linguaggio” che si esprime attraverso le immagini. Esso è efficace nella comunicazione solo se l’immagine simbolica è “condivisa” nei valori, nei rimandi letterari, concettuali, onirici, dal contesto sociale che ne usufruisce.

Il “simbolo” è tale se la sua lettura è possibile. La sua polisemicità è comunque limitata ai contesti e alle “culture” che lo utilizzano come tale. Il “simbolo” può essere elaborazione della cultura collettiva che vive anche all’interno di un singolo individuo: solo così la sua comunicazione diventa possibile.

Questa collettività referente del “simbolo”, può essere più o meno ampia, ma deve sempre comunque essere omogenea; anzi spesso è il “simbolo” a permettere l’identificazione del gruppo sociale: in esso ci si riconosce, esso è sintesi condivisa di uno stile di vita, di una concezione del mondo, dell’immaginario. La sua presenza, la sua immediata traducibilità, permette l’identità.

Se il “simbolo” nasce come modo onirico ed esclusivo di parlare di cose o di associare eventi, se non è spiegato, resta criptico e non comunica … costringe lo spettatore ad immaginare, ma poiché esso non appartiene al suo mondo, non diventerà mai completamente comunicativo.

Chi guarda, può capire solo a condizione che “l’elaboratore del simbolismo”, apra alla comprensione con le “chiavi” che solo lui possiede. Se esse non vengono offerte, il simbolismo è inutile e respinge, finisce per non interessare, oppure diventa talmente opprimente quanto può esserlo una declamazione presuntuosa ed egocentrica.

Se non si vuol offrire la chiave al “simbolo” che ci si è costruiti, si intende voler parlare di se stessi, più che del senso che si attribuisce al Sé… diventa palese che si desidera che gli altri si interessino a noi e al nostro mondo che “deve essere” compreso” come se racchiudesse qualcosa di sapienziale e assoluto. In questi casi, è difficile parlare di “arti visive” e si passa naturalmente nell’ambito della “terapia”.

Questo atteggiamento è decisamente frequente nel contesto individualistico della nostra società: è frequente l’uso dell’immagine, l’attività artistica come forma “curativa” delle proprie manie, timori, ambizioni e visioni privatissime. Esprimere immagini e persino “divenire immagine”, è un modo di attirare l’attenzione: in esse ci si identifica e in esse si ripone tutto se stessi, ma solo perché si affida ad esse la propria identità che pretende l’attenzione dell’osservatore.

Allora, ogni simbolismo che possa davvero comunicare, deve tendere ad una apertura universale, a riconoscere il patrimonio comune di cultura, immaginario degli uomini o di almeno un gruppo significativo tra essi. Dovrebbe essere in grado di condividere la sua densità, anche gradualmente, dovrebbe poter dare un accesso, dovrebbe poter costruirsi in linguaggio non autoreferenziale. Diversamente, si pone in attesa del terapeuta, del “solutore” ed è così che può finire di stancare e condannarsi ad una implosione.

Tutto ciò per spiegare che il dire dell’arte figurativa è “trovare” il simbolo, trovare il modo di essere se stessi nel contesto, trovare il modo di articolare relazioni e percorsi tra i simboli: in ciò consisterebbe l’unica originalità, al di là del genere o della scelta di campi espressivi specifici


(1) Operare una distinzione tra Iconologia e iconologismo, intendendo quest’ultimo come una degenerazione semplicistica di quanto positivamente ha elaborato la conoscenza del linguaggio dell
e immagini.

(2) come era del resto doveroso per un professionista che ambisse a commissioni importanti, avere una cultura quantomeno pari a quella dei migliori committenti. Talvolta, per altre committenze, appare manifesta la cultura superiore dello stesso artista rispetto ai committenti.

(3) E. FRANZINI, Verità dell’immagine, Il Castoro, Milano, 2004


Theorèin - Dicembre 2004